venerdì 15 maggio 2009

I macellai di bestie (capitolo 1)

«Madonna santa, madonna mia. Fammi campare, fammi campare… mammà, te lo giuro, finisco di fare la malavita… fammi campare… fammi campare…».
Piange. Si dispera. Attaccato con le spalle al cancello, singhiozza, trema, rintanato nell’androne di un palazzo. Non sa che i macellai di bestie gli sono già addosso. Pochi minuti e un lenzuolo gli coprirà il volto, dopo che lo avranno ammazzato. Sarà l’ultimo gesto di pietà nei confronti di quelle spoglie mortali. Ormai non ha più via di scampo. La sua vita vale appena qualche migliaio di euro. Vorrebbe ricomprarsela lui, offrire il doppio per continuare a respirare, ma non gliene danno la possibilità.
«Madonna, madonna, madonna…», ha solo il tempo di fiatare. Sfondano il portone con un calcio: puntano le pistole e portano a conclusione il loro onesto lavoro.
Un rivolo di sangue scorre lungo il gradino di finto marmo che dà sulla strada e termina in una piccola pozza, che si riempie di liquido rosso. I macellai di bestie hanno terminato la missione. Risalgono in sella alla moto, lasciata accesa poco distante, e fuggono. Ma senza scappare.
Il muezzin del rione chiama a raccolta i familiari della vittima, che sbraitano, bestemmiano, danzano attorno al cadavere. C’è anche una bellissima ragazza bionda, con gli occhi azzurri e il fisico da indossatrice: le gocce di dolore le rigano il volto e finiscono sulle labbra, impastandosi alla saliva. È la figlia del morto. Le impediscono di vedere il corpo del padre, straziato dai proiettili: lei vomita furore, si sbraccia, resiste. La trascinano a forza, i poliziotti, riportandola oltre la scena del delitto, oltre quei nastri rossi e bianchi che segnalano – come il fiume Stige – il confine tra il regno dei vivi e quello dei morti.

I macellai di bestie corrono lungo le strade anonime di Scampia e Secondigliano: indossano berretti di lana e giubbotti imbottiti per sfidare il vento del tachimetro. Quello che ha sparato il colpo di grazia, siede dietro: ha le mani in tasca. La testa ondeggia da destra a sinistra, come un serpente a sonagli. Controlla, scruta. Dopo un omicidio, i killer posseggono un’accresciuta percezione delle cose, quasi si impadronissero delle energie della loro vittima e ne traessero vantaggio in termini di intuito. E di vista. La pistola ancora calda gli offre sollievo al grembo, contro cui la tiene schiacciata. È infreddolito. Il tessuto del giubbotto trattiene per un poco il calore, poi lo lascia disperdere lungo le fibre di nylon. La moto sfreccia sulle strade che tranciano a metà rioni scrostati e isolati senza numero civico, mentre l’eco delle sirene delle volanti si fa sempre più flebile. Ormai non potranno più essere individuati, ormai sono a un passo dall’impunità. Attraversano budelli dai nomi celebri, Via Miracolo a Milano, Viale Gerusalemme Liberata, Via I Misteri di Parigi, Via Praga Magica, popolati da spacciatori e drogati e lastricati di aghi spezzati e fazzolettini sporchi di sangue. L’ultimo essere vivente che i macellai di bestie scorgono, prima di sparire dalla circolazione, è un tossico che si sta iniettando nelle vene ciò che resta in alcune siringhe trovate vicino a un tombino.
Arrivati in prossimità di un lotto di case popolari, entrano in un garage dove c’è un giovane ad attenderli. Nascondono la moto sotto montagne di stracci e coperte vecchie e imboccano la scala interna che dai sotterranei conduce a un’abitazione al primo piano. Gli assassini sono al sicuro, ora. Il pianerottolo è quasi più buio del garage, ma il ragazzo non sembra farci caso: conosce la strada a memoria. Gira a sinistra, poi a destra e di nuovo a destra: le suole delle scarpe si appiccicano al pavimento per la sporcizia e, a staccarle, si fa un gran casino. La porta blindata si apre dopo quattro pesanti mandate: l’interno del covo è povero, poverissimo, come si addice alla vita dei soldati del crimine. Saranno non più di cinquanta metri quadrati, divisi in due ambienti e mezzo: una stanza da letto, una specie di salone e un bagno piccolo, senza nemmeno la doccia. Sarà il loro rifugio per le notti a venire.
I macellai di bestie si liberano dei panni e restano in mutande, mentre cercano nel borsone di riserva tute e calzini. Il vento fuori continua a soffiare e le pareti dell’appartamento lasciano traspirare un’umidità che entra nelle ossa. Si vestono come se dovessero allenarsi in palestra: maglia larga su un paio di pantaloni comodi. Griffati.
Gli abiti usati nell’agguato finiscono nel borsone svuotato del ricambio, che il servizievole vivandiere si preoccuperà di dare alle fiamme, per cancellare ogni possibile traccia. I macellai di bestie gli consegnano anche una pistola, smontata. Finirà sotto un metro di terreno, dalle parti di Capodichino, e sarà pura fortuna se verrà fuori fra trent’anni. L’altra, quella del colpo di grazia, gli viene invece affidata in custodia. E’ un revolver speciale, apparteneva al padre del killer. Un cimelio di famiglia, insomma. Il giovane dovrà conservarla in un luogo sicuro fino alla prossima missione.
A turno vanno in bagno, che è ancora più freddo del salone. C’è un piccolo specchio, sopra il lavandino e più in alto ancora, sulla destra, proprio sopra il cesso, una mensoletta con un pacco di detersivo e una confezione di sapone. I killer si pisciano sulle mani, per cancellare le tracce di polvere da sparo. L’urina elimina ogni residuo, ogni particella creatasi con l’esplosione del colpo. Meglio non correre rischi, anche se l’acqua gelida che esce dal rubinetto pizzica maledettamente le dita.
Nel salone principale, ci sono macchie di umidità sui muri, mentre un lume, senza lampadina, campeggia al centro di un piccolo tavolino, proprio di fronte a una vecchia televisione. È un alloggio disabitato, forse da anni, che la famiglia del vivandiere ha occupato abusivamente tanto tempo prima, durante le assegnazioni degli appartamenti di edilizia popolare ai terremotati. Da allora, non l’hanno più lasciato. È stato arredato il minimo indispensabile, anzi pure meno. L’unico investimento è stato per la porta blindata, costata tre milioni di lire: una barriera invalicabile per proteggere la casa dai malintenzionati. Per questa ospitalità, i proprietari ricevono un regalo di 2mila euro. Ormai sono specializzati in questo genere di «attività», è diventata quasi la loro occupazione principale. Assicurano tetto e appoggio logistico a quanti sono costretti a fuggire dalla legge. O dai killer nemici. Un modo come un altro per guadagnarsi da vivere, senza stancarsi troppo. Fanno parte di quell’«esercito» di fiancheggiatori incensurati che rappresenta la vera forza della criminalità organizzata a Napoli, invisibili ai radar dell’Antimafia e fondamentali per il controllo del territorio e per la gestione degli affari illeciti.
I killer sono rimasti sempre in silenzio, da quando hanno messo piede nell’appartamento. Sembrano preoccupati dalla precarietà della sistemazione: speravano di fuggire se non all’estero, almeno lontano dalla Campania. Invece, dovranno rimanere nel quartiere perché il «lavoro» non è finito. E poi il giovane che li ha accompagnati al nascondiglio ha una faccia tutt’altro che intelligente. I suoi occhi sono spenti, appesantiti dalle canne che gli hanno annebbiato il cervello. Ha i capelli tagliati più corti alla base della nuca e più folti, ingelatinati, all’altezza della calotta cranica e un paio di calzoni abbottonati poco al di sotto dell’elastico dei boxer “Dolce&Gabbana”. È il tipico sbandato di periferia. Probabilmente, è riuscito a malapena a conseguire la licenza elementare, per poi finire – appena adolescente – a trascorrere le sue giornate in circoletti e bar, alla perenne ricerca di una vincita favolosa al videopoker. È un patito dei cantanti neo-melodici, conosce a memoria tutte le canzoni di Ciro Ricci, Franco Ricciardi e Mauro Nardi e di tanti altri artisti rionali, cantori della fedeltà che non si tradisce, anche di fronte al pericolo, e dei mille falsi valori morali di ragazzi che cercano riscatto nella strada. Sarà lui ad occuparsi dei macellai di bestie. Sarà la loro vista e il loro udito. Ed è proprio questo che li mette in allarme.
«Che fai tu per campare?», gli chiede uno dei sicari.
«’O zio, prima facevo un poco di cocaina, giù al rione, ora sto un poco fermo. Mi hanno detto di stare un poco fermo, che mi hanno identificato già un paio di volte. Ma, se la Madonna me lo fa vedere, dovrei andare a parlare con il “piccolino” per chiedergli di darmi in gestione qualche cosa, che devo fare pure io i soldi. Qua li stanno facendo tutti i compagni miei i soldi, i miliardi a palate stanno facendo. Non è possibile che io sono l’unico stronzo che non guadagna niente…».
«Ma quanti anni tieni, tu?»
«Venticinque, sono un uomo ormai e pure io devo prendere la strada mia. ’O zio qua se uno tiene le qualità può sfondare, può diventare ricco che poi non sai nemmeno più dove metterli i soldi: lo vedete questo giubbino, zio, eh… l’ho pagato 5mila euro. Ma è una soddisfazione, sentite com’è morbido… non sento proprio il freddo con questo. Ora, io 5mila euro li guadagnavo in un mese, ora se la Madonna me lo fa vedere li guadagno in un giorno…»
L’adrenalina per l’omicidio appena compiuto lentamente si scarica nei petti come un motore che cala, d’improvviso, di giri. Il respiro si fa pesante e le fronti iniziano a imperlarsi di sudore e le gambe si piegano. I macellai di bestie sono stanchi, non ce la fanno più a stare in piedi e le parole del giovane li hanno profondamente irritati. Si sdraiano su un piccolo divano sdrucito e si sintonizzano sul canale delle ultime notizie del Televideo, mentre il loro «assistente» cerca di rimettere in sesto un piccolo cucinino, alimentato da una bombola di gas scrostata d’azzurro, per preparare un buon caffè. Dopo qualche tentativo di ricerca, indovinano la pagina esatta. Il lancio che compare sullo sfondo nero dello schermo, però, non li convince. Non bastano quelle poche righe telegrafiche a dissetare la loro curiosità. Vogliono saperne di più, vogliono capire che cosa è successo dopo, vogliono ridere delle prime, provvisorie, ricostruzioni giornalistiche. Vogliono vedere chi c’è, vogliono vedere chi piange e chi sta zitto. Per paura, o per convenienza.
«Hai sentito, strillava come un maiale... ci voleva pure corrompere»
«Sì, ma la prossima volta due botte secche in testa e niente inseguimento. Ti ricordi no dove siamo andati a prenderlo?».
«Va bene, va bene. Cambia canale, vedi se quell’altro dice qualche cosa di più…»
«Vedi, non ci sta niente. Dobbiamo aspettare il telegiornale»
«Ma hai sentito a questo stronzetto che parla di soldi? Il giubbino di 5mila euro, la cocaina, i soldi… la Madonna che lo mantiene in piedi…».
«Eh, come no… gli avrei voluto tirare un pacchero in faccia e dire: vai a spalare la merda e tra una ventina di anni ti permetti di parlare così».
L’erogazione del gas è ripresa, finalmente. Arrivano i caffè.

La polizia, intanto, è ancora al lavoro: un agente della Squadra mobile urla contro un fotografo di un quotidiano locale, che quasi inciampa sul cadavere a forza di scattare. Sono state utilizzate pistole semiautomatiche. Potenti, precise. Devastanti. Sul luogo del delitto ci sono decine e decine di persone, quasi si soffoca. Arrivano altre telecamere. Operatori e cronisti cercano di raccogliere le prime informazioni sull’agguato. Si girano intorno, con taccuini e microfoni in mano, ma non trovano nessuno che possa aiutarli. Dovranno attendere di parlare con il magistrato, o con il funzionario di turno della Mobile, sperando di portare in redazione qualche indiscrezione, o un buon particolare degno di essere raccontato.
La zona in cui è avvenuto l’omicidio si trova a ridosso del dedalo di stradine che porta alla «vecchia» Secondigliano, quella che una volta era l’area residenziale del quartiere. È una giornata stranamente fredda per queste latitudini. Il palazzo dove è stato ucciso l’uomo, di cui gli inquirenti non hanno ancora rivelato l’identità, ha un portone di ingresso di ferro a vetrate, quasi tutto «mangiato» dalla ruggine. Le verande dell’edificio hanno colori diversi tra loro, grigie, marroni, verdi e altre tonalità indistinguibili per lo sporco e la polvere, e tremano per il rombo degli aerei in decollo dal vicino scalo di Capodichino. Ci sono macchie di sangue e schizzi di budella sul pavimento e tutt’attorno i cartellini numerati della Scientifica.
Dalla strada si riesce anche a intravedere il cadavere disteso, coperto da un lenzuolo azzurro, se ci si muove tra la foresta di teste degli spettatori. Si sta stretti, attaccati l’uno all’altro, a osservare la scena e a scambiarsi commenti furtivi sulle ragioni di una vendetta così atroce.
A sentire certi napoletani, si muore sempre per qualche motivo, per sbagliato che sia: a nessuno viene in mente che la violenza non abbia giustificazione: c’è sempre un fatto, un’azione, un ricordo – lontano nel tempo, o nello spazio – che scatena la follia omicida. E più sono efferate le modalità dell’uccisione più la causa doveva essere grave e, dunque, meritevole di punizione.
Ogni tanto un automobilista si ferma e si informa sull’accaduto, ma non c’è mai tempo di ascoltare la spiegazione che arrivano le urla di qualche poliziotto. L’intera area è presidiata ed è impossibile entrare e uscire dall’edificio.
Poco più in là, parcheggia il carro funebre. L’autista scende e inganna il tempo con una sigaretta. E’ l’unico che sa già come andrà a finire questa storia. Farà un lavoro «pulito», senza perdere tempo. Come sempre.
I parenti non hanno ancora smesso di urlare contro Gesù e la Madonna e di inveire contro gli uomini delle forze dell’ordine che la mamma della vittima, quella invocata nel giuramento, sviene appena vede le telecamere. Ma prima si premura di avvicinarsi ai parenti, perché la afferrino subito. Potrebbe farsi male, a calcolare in maniera errata i tempi di caduta. La ragazza bionda non è con loro. Siede un po’ più in là, sul marciapiedi, con la faccia tra le mani, arrossata dal freddo. Non si preoccupa della sceneggiata della nonna e maledice, sottovoce, i nomi degli assassini. Non si è accorta nemmeno che, proprio dietro di lei, qualcuno, nelle notti precedenti, con lo spray ha scritto su un muro una frase che suona, più o meno, così: «Benvenuti alla scissione». Nessuno ci fa caso, quel giorno. Né le forze dell’ordine, né i residenti.
«Segni particolari sul corpo non ce ne sono», registra il funzionario della Squadra mobile, relazionando al magistrato. «E’ morto sul colpo, naturalmente. Forse è stato inseguito per quel vicoletto e finito nell’androne del palazzo, perché una donna ha detto di averlo visto correre da quella direzione».
«E siamo d’accordo, ma da dove sono entrati i killer? La porta di ingresso era sbarrata dall’interno, hanno riferito i primi soccorritori. Non è che si sono rifugiati in qualche appartamento?».
«No, no. Non è possibile. Però abbiamo scoperto una cosa interessante, venite un attimo con noi qua dietro…».
I poliziotti si sono accorti che l’androne dove è stato ammazzato l’uomo è collegato a un piccolo locale sotterraneo, utilizzato come garage per i motorini, a cui si accede da un cancelletto alle spalle del palazzo. Attorno c’è arrotolata una catena con un lucchetto e, sull’asfalto, cicche di sigarette ovunque e accendini di plastica rotti.
«Di sicuro sono entrati di qua, dottore», aggiunge, «lo hanno sorpreso alle spalle e gli hanno sparato».
«Ma i killer come facevano a sapere di questa entrata secondaria? Dobbiamo far controllare quelli che vivono nel palazzo, capire se hanno parenti affiliati al clan della zona, perché di sicuro erano sicuri di trovarla aperta…».
«Eh, sembra facile capire qualcosa in questo posto», gli risponde il poliziotto, indicando la scena che si stava verificando davanti ai loro occhi.
«Io non so niente», si agita uno degli inquilini del primo piano. «Io non so niente e non ho visto niente», ripete a chi lo sta interrogando, «non mi sono accorto di niente. Omicidio? Sparatoria? Pace all’anima sua, ma io non so niente… proprio niente… ve lo ripeto un’altra volta: non lo conoscevo. Io sono vecchio, non ci sento più tanto bene...», taglia corto l’uomo, in attesa che gli liberino il passaggio ingombrato dal cadavere per tornare a casa.
Il passaparola ha trasmesso la notizia dell’agguato già in tutto il quartiere, ma stavolta davvero non si sa chi siano i killer. Di solito capita che, mentre le forze dell’ordine sono ancora alla ricerca di qualche indizio, l’edicolante o il tabaccaio della zona già sappiano tutto, invece. Solo che non parlano.
L’azione dei killer è stata fulminante, ma è impossibile che nessuno si sia accorto di nulla. La vittima ha urlato, nel tentativo disperato di attirare l’attenzione dei passanti, e anche i rumori delle detonazioni devono per forza essere arrivati alle orecchie degli inquilini. Tutti quelli che sono stati ascoltati dalla polizia, al contrario, negano. C’è anche chi ha finto di non essere in casa per evitare domande scomode ed è stato poi intravisto dietro le finestre ad osservare la scena.
Il clima che si avverte è davvero surreale. Si sentono i televisori sintonizzati su Rai1, durante la trasmissione “La vita in diretta”. Sembra uno scherzo del destino il nome di quel programma quel giorno: ci si interessa dell’esistenza degli altri attraverso un tubo catodico, mentre a pochi metri di distanza poliziotti e becchini si muovono, indaffarati, su un pavimento imbrattato di sangue e l’anima di un povero cristo è stata strappata alle budella da due palle di fuoco che gli hanno incendiato i polmoni. Ma forse la tv è solo un modo come un altro per evadere, per non sentirsi morti da vivi. Per gli abitanti dei quartieri degradati della città quella a cui assistono quotidianamente – povertà, droga, omicidi, violenza – non è più vita, ma è normalità. La vita è un’altra cosa, sarebbe un’altra cosa, magari andare ospiti da Michele Cucuzza per conoscere dal vivo il proprio attore o il proprio cantante preferito.
«E’ un affiliato al clan Di Lauro. Lo conoscevo», ricorda un agente al pm, «personaggio di piccolo cabotaggio. Un mariuolo, niente di particolare. Deve aver rotto il cazzo a qualcuno e questo ha rotto il culo a lui...».
Tutt’attorno alla scena del delitto c’è la gente del rione, gli amici della vittima e semplici passanti: le telecamere delle emittenti televisive riprendono i loro sguardi, i atteggiamenti e le parole sussurrate a mezza voce. Sono tutti lì, assiepati attorno alle volanti e all’ambulanza. Formano un semi-cerchio perfetto attorno all’ingresso dello stabile, sembrano quasi gli spettatori di un’arena dove i gladiatori della malavita hanno lasciato, tra la sabbia tinta di rosso, la loro ultima offerta sacrificale.
E pur nella sua noiosa ripetitività, uno spettacolo di morte è comunque educativo da queste parti. Le mamme, a qualche isolato di distanza, liberano i ragazzini dagli appartamenti e li lasciano assistere a quelle immagini di disperazione per imparare il codice degli uomini d’onore. A dieci, quindici anni sanno già come comportarsi. Si piazzano a ridosso del nastro rosso e commentano in silenzio, con la mano a coprire la bocca e con la zazzera fluente raccolta in codini arricciati che sembrano code di porco. Qualcuno si azzarda a ridere, ma viene immediatamente messo a tacere con uno spintone. E’ la regola. Guardare e imparare. Che non si sa mai che cosa potrebbe accadere nella vita, sempre meglio stare dalla parte del grilletto che della canna.
I negozianti sono tutti sull’uscio dei propri locali. Salumieri, macellai, titolari di rivendite di arredamento e telefonia, computer e abbigliamento. Tutti a osservare. Si scambiano impressioni, azzardano ricostruzioni, ipotizzano moventi e dinamiche. D’altronde, sono loro i depositari dei segreti della strada. Sono loro che conoscono, a primo sguardo, vedette e spacciatori, facce nuove e vecchie di quell’immenso mercato della droga, dove ogni giorno migliaia di tossici si muovono come stupidi banchi di pesce, sospinti da una forza misteriosa che li trascina all’ombra delle Vele. Gli esercenti si danno il cambio per andare a guardare più da vicino, mentre gli altri sorvegliano a turno le botteghe.
Dopo un’oretta scarsa, la folla, lentamente, si allontana e pure i familiari del morto si infilano nelle auto e corrono lontano. Chi all’obitorio, chi in chiesa, chi a casa. E chi altrove, alla ricerca di una spiegazione che non sarà mai completa. Né soddisfacente. Utile, però, a capire almeno se si potrà continuare a vivere tranquilli nel rione, o se sarà meglio cambiare aria.
Le ultime volanti vanno via poco dopo le 19.30, proprio quando sta iniziando il telegiornale regionale. Dall’altro lato del quartiere, i macellai di bestie non si sono mossi dal divano. Hanno atteso, pazientemente, l’inizio del TgR Campania e, all’avvio della sigla, si sono sprofondati nello schienale. Il conduttore illustra il servizio di apertura:

«Nuovo omicidio di camorra, questo pomeriggio, a Secondigliano: un commando di due killer ha ucciso un pregiudicato di 53 anni all’interno di un palazzo nel rione Monterosa. E’ il quinto agguato in questo mese, il secondo nell’ultima settimana. I dettagli nel servizio del nostro inviato».

La scena si apre sull’anziana donna sorretta a braccia dai parenti, mentre sullo sfondo - nell’androne dell’edificio - si scorge la scarpa della vittima. Il giornalista ricostruisce la dinamica del delitto e azzarda un’ipotesi che fa sorridere i due assassini.

«Secondo gli inquirenti, si tratterebbe di un regolamento di conti interno ai clan della zona, probabilmente un debito di gioco non onorato o una fornitura di droga non pagata: è su queste due piste che si stanno indirizzando le indagini della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, coordinate dal procuratore aggiunto Felice Di Persia e condotte dalla Squadra mobile».

«Se questo pensano i poliziotti, possiamo proprio stare tranquilli», dice il sicario più giovane all’altro, mentre sullo schermo passano le immagini della figlia del morto, con gli occhi gonfi di lacrime. «Come è bella Liliana... Era da un po’ che non la vedevo. La voglio andare a trovare...».
«Ma sei uscito pazzo? Non ci pensare proprio...», gli risponde il complice. «Abbiamo altri pezzi da fare e poi ti ricordi della signora affacciata al balcone che ci ha visti mentre inseguivamo a quel cornuto? Non possiamo rischiare per delle stronzate, ci sta il fatto del giuramento…».
«Ma chi cazzo sei tu per dirmi quello che devo fare e quello che non devo fare? Statti zitto e non ti permettere più, che ti taglio la testa e ci gioco a pallone», ribatte l’altro, rosso di collera. Che ne sa del suo passato con Liliana, di quello che vuole fare. Come si permette di giudicare e di dare ordini, pensa. «Il fatto del giuramento me lo ricordo, però tu ricordati che non ti devi mettere in mezzo alle cose mie…». Il televisore si spegne nell’istante in cui la linea sta tornando in studio per le altre notizie. Suonano alla porta, non c’è tempo per litigare. E’ il giovane vivandiere. Porta un messaggio da parte del grosso: “Grazie per il favore, saprò sdebitarmi, ma ora dovete fare un’altra cosa per me…”.